La data di origine di questa collezione di ritratti, che già nel 1624 formava un insieme distinto, rimane incerta. I ritratti vengono menzionati nel 1625 in occasione di una visita apostolica alla chiesa di San Luca e Martina, sottolineando che tra gli osservatori non c’erano solo allievi e docenti, ma anche alti funzionari della Chiesa e altri visitatori11. Esaminare i tre inventari della collezione dell’Accademia, redatti nell’arco di un decennio, è come sbirciare attraverso il buco della serratura di un’aula d’arte della prima età moderna. In genere, gli inventari sono prove documentali che offrono una sorta di testimonianza oculare sugli oggetti catalogati. Le descrizioni appaiono spesso sintetiche, ma possono svelare il rapporto tra ciò che è descritto e chi lo descrive. Alcuni inventari sono organizzati in base alla conformazione degli spazi in cui le opere erano esposte, mentre in altri gli oggetti sono suddivisi in categorie definite dal compilatore. Questi elenchi possono anche suggerire gerarchie di valore, per cui i nomi degli artisti più apprezzati sono generalmente collocati in alto12. L’occasione per redigere un inventario può scaturire da vari fattori, ad esempio la morte del proprietario degli oggetti in questione o il loro trasferimento da una sede all’altra13.
Il 20 ottobre 1624, il neoeletto principe dell’Accademia Simon Vouet ordinò la compilazione di un inventario dal momento che, come era stato deciso, avrebbe dovuto prendere in consegna tutto ciò che si trovava nell’istituzione14. Cinque giorni più tardi, fu stilata una lista dei contenuti di un ambiente posto sopra la chiesa di San Luca, probabilmente il fienile15. Qui erano conservati molti oggetti, tra cui nove “ritratti di pittori antichi” racchiusi in cornici rotonde dorate e 53 “ritratti di pittori e scultori” sui quali erano montate delle cornici nere. In origine lo studio era costituito da un’unica grande stanza, ma nel 1625, a quanto pare, lo spazio era stato ampliato fino a comprenderne due. La più grande conteneva molte sedie e poteva quindi essere una sorta di sala di lettura, mentre l’altra custodiva calchi e frammenti di sculture, il che fa ipotizzare che si trattasse dello studio16. Nel 1627 il principe eletto Ottavio Leoni dispose di stilare un altro inventario degli oggetti presenti nell’armadio che si trovava nello studio sopra la chiesa. All’epoca si contarono 58 “ritratti di diversi pittori morti”, tutti – tranne tre – con cornici nere17. Sei anni dopo, nel 1933, il principe Francesco Mochi richiese un inventario più dettagliato delle due stanze contigue alla chiesa18. In questa circostanza vengono registrati nove ritratti di pittori racchiusi in cornici circolari nere o dorate, ma nel corso della lista si fa cenno ad altri “ritratti di pittori illustri”. Vale la pena sottolineare come, diversamente dagli inventari precedenti, qui gli artisti non vengono più descritti come “antichi” o “morti”, ma sono definiti appunto “illustri”. Questo cambiamento di aggettivo dà conto del loro potenziale sotto il profilo didattico: gli effigiati erano stimati per i loro successi e incarnavano dei modelli che gli allievi erano chiamati a seguire. Il loro numero, inoltre, era cresciuto da 58 a 6919.
Il primo in ordine cronologico è Simone Martini, ma i primi tre nomi elencati sono quelli di Michelangelo, Raffaello e Tiziano, a dimostrazione della loro fama e rilevanza. La lista comprende anche Caravaggio e Annibale Carracci – per quanto la loro appartenenza all’Accademia non sia facilmente documentabile – come pure i due pittori e incisori Agostino Carracci e Antonio Tempesta (fig. 2), del quale Girolama e Leonardo Parasole avevano copiato spesso le opere per illustrazioni editoriali e stampe. I ritratti di Girolama, di Tempesta e di Carracci erano affiancati alle effigi di tre incisori nordeuropei inclusi in questa galleria di figure illustri: Albrecht Dürer, Hendrick Goltzius e Lucas van Leyden. Tra i ritratti c’era anche quello dell’iconografo Cesare Ripa, registrato negli inventari del 1656 e del 1658. Un inventario più tardo documenta tuttavia che alla fine del Seicento esso non appariva più insieme agli altri e risulta oggi disperso20. Probabilmente è su questo dipinto mancante che Francesco Villamena, a sua volta rappresentato nella galleria dell’Accademia, basò l’immagine incisa di Ripa, il cui formato ricorda da vicino i tanti ritratti di sua mano giunti fino a noi (fig. 3). L’incisione fu successivamente utilizzata sul frontespizio dell’edizione padovana dell’Iconologia, la raccolta di emblemi pubblicata da Ripa nel 162521.
Questi dipinti erano parte di un più ampio insieme di volumi e oggetti usati come materiali di riferimento e strumenti pedagogici22. Nella biblioteca si trovavano anche gli scritti di alcuni degli artisti i cui ritratti erano esposti all’Accademia, sebbene le edizioni di quei libri non fossero indicate: tra essi, figuravano i Quattro libri sulle proporzioni del corpo umano di Dürer (1525) e due copie del volume di Ripa (prima edizione, 1593; prima edizione illustrata, 1603). Le Metamorfosi di Ovidio, opera di consultazione per la composizione di soggetti classici, così come i Sette libri dell’architettura di Sebastiano Serlio (1537-1575) e L’arte di costruire di Leon Battista Alberti (1443-1452), erano a portata di mano sugli scaffali. Il Trattato dell’arte della pittura, scultura ed architettura di Giovanni Lomazzo (1585) costituiva una base teorica per lo studio delle arti visive, mentre Il cortegiano di Baldassare Castiglione (1528) forniva suggerimenti sui comportamenti da tenere negli ambienti di corte.
Un aspetto spesso trascurato delle collezioni della prima età moderna riguarda le indicazioni che sono in grado di fornire sui metodi di formazione degli artisti. Da questi tre inventari emerge come gli allievi avessero a disposizione per lo studio anche frammenti di calchi in gesso di gambe, braccia e torsi, nonché un modello della chiesa di San Luca. Tra gli oggetti in elenco figurano teste in gesso di Bacco, di Seneca e di un gladiatore, un busto di Venere, una copia in rame delle figure michelangiolesche che popolano la Cappella Sistina – forse la lastra su cui aveva lavorato un incisore – e persino il frammento di una spalla e parte di un busto scolpiti da Michelangelo stesso. Vi erano poi i dipinti donati da membri dell’Accademia: un’allegoria della Virtù di Baglione, un paesaggio di Paul Bril, un’Assunzione di Ottavio Leoni e un’Eva di Baldassarre Croce, tutti ritenuti perduti. Questa raccolta di oggetti rappresenta una sorta di nucleo museale inziale su cui è stata costruita la ricca collezione giunta fino a noi23. Si trattava di immagini e manufatti da osservare e toccare come nelle collezioni permanenti e didattiche dei musei odierni, elementi che avrebbero contribuito alla missione formativa dell’Accademia. Peter M. Lukehart ha ricostruito l’evoluzione degli approcci pedagogici dell’istituzione, delineati da papa Gregorio XIII nel breve del 1577 in cui si dichiarava che l’Accademia aveva il compito di “educare i giovani studiosi alla pratica delle arti”. A questo scritto sarebbero seguiti, il 7 marzo 1593, una dichiarazione compiuta con i relativi statuti e la fondazione. Una breve disamina dei materiali didattici della scuola può servire, allora, a colmare le lacune lasciate dalla pur ricca documentazione delle “congregazioni” (incontri) dell’Accademia, che offre però scarse notizie sulla formazione teorica o pratica degli allievi. L’Origine et progresso dell’Academia (1604) di Romano Alberti fornisce tuttavia una fonte critica per comprendere com’era strutturato l’insegnamento nel periodo in cui Zuccaro rivestì la carica di primo principe24.
Da un’analisi del testo, Pietro Roccasecca ha potuto ricostruire gli obiettivi didattici dell’Accademia, che era concepita come una duplice entità: da una parte l’accademia e dall’altra lo studio, quest’ultimo dedicato alla formazione dei giovani artisti. Questi venivano classificati in principianti, “accademici desiderosi” e “accademici studiosi”, i quali potevano partecipare pienamente alla vita intellettuale dell’istituzione. Tra i membri più esperti venivano scelti ogni anno dei maestri con incarichi temporanei per formare gli allievi più giovani, e ogni due settimane gli accademici tenevano un discorso di fronte a colleghi e letterati25. Nel contesto pedagogico dell’accademia, quindi, i calchi e i frammenti scultorei venivano usati per lo studio pratico, mentre i libri fungevano da testi di riferimento per i contenuti teorici, eventualmente discussi nelle lezioni. Tutto questo mentre le attività di docenti e allievi all’interno della scuola si svolgevano sotto lo sguardo silenzioso dei volti “illustri” esposti nella galleria.
L’influenza delle arti visive sulle giovani menti in ambito famigliare era riconosciuta da tempo. All’inizio del Quattrocento, il predicatore domenicano Giovanni Dominici aveva scritto un trattato in cui consigliava alle madri di esporre immagini della Madonna col Bambino in casa per imprimere un’educazione morale ai pargoli26. La casa-studio della pittrice secentesca Elisabetta Sirani fungeva sia da spazio domestico e luogo di socializzazione con i committenti, sia da studio per la formazione di artisti. Gli inventari di questa bottega di famiglia elencano disegni, stampe e calchi in gesso di Dürer, Carracci e Michelangelo, mentre la piccola biblioteca ospitava libri di Ovidio e Ripa27: gli stessi artisti e autori documentati all’Accademia erano dunque utilizzati come risorse didattiche anche a Bologna. A Roma, gli interni di palazzi prestigiosi precorrevano il concetto di museo pubblico attirando talvolta anche visitatori esterni alle famiglie, inclusi allievi di arti visive28 Oggetti scelti con cura e disposti in modo meticoloso possono creare gerarchie e trasmettere narrazioni che orientano e istruiscono l’osservatore. Come osservato da Gail Feigenbaum, la storia dell’arte veniva risolta sulle pareti delle case dei collezionisti romani, che promuovevano gli artisti esattamente come aveva fatto Vasari nelle pagine delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori29.
L’idea di esporre opere per favorire la formazione di un canone da parte di un’istituzione pedagogica mostra come l’Accademia di San Luca cercasse di definire l’educazione artistica in un campo largamente indefinito. Le pareti della scuola erano decorate come un palazzo romano e i ritratti creavano un’atmosfera formale e istituzionale all’interno di spazi modesti. Questa galleria di figure celebri traeva origine dalla consuetudine di esibire illustrium imagines. Gli antichi romani esponevano ritratti in ossequio agli antenati, una pratica successivamente rinnovata con una maggiore attenzione agli scritti di Petrarca, in particolare al De viris illustribus30. Presentare delle biografie in una sequenza cronologica era stato il concetto chiave scelto da Vasari per organizzare le Vite nel 1550. Sotto la sua influenza, nello statuto dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze approvato nel 1563 si era espressa la volontà di esporre opere d’arte in un fregio che documentasse tutti gli artisti eccellenti a cominciare da Cimabue. Nel 1568, Vasari aveva illustrato la seconda edizione delle Vite con le effigi degli artisti, ciascuna racchiusa in una cornice architettonica all’antica31. I ritratti dell’Accademia seguivano uno schema analogo, ancorché più sobrio, e Baglione, che modellò le sue Vite su quelle di Vasari, fa riferimento a molti di quei dipinti per documentarne l’esistenza e giustificare l’inclusione o esclusione di un artista nella sua raccolta di biografie.