Come si è detto, nella lunga storia dell’obbligazione camerale una data segna la fine di una certa modalità di impiego della formula e il passaggio ad una nuova: è il 1570, quando la costituzione Inter illa di Pio V recepisce la disposizione del Concilio di Trento relativa alle scomuniche. Nelle cause civili esse dovranno essere irrogate solo in iuris subsidium, ovvero in via residuale, quando non sia possibile procedere ad una esecuzione reale o personale55.
La procedura di esecuzione dell’obbligazione camerale in uso fino al 1570 circa viene chiamata stylus antiquus. Il passaggio allo stylus modernus avvenne formalmente con la costituzione Inter illa, ma in realtà la transizione non fu brusca perché le innovazioni erano state precedute dal dibattito tra i giuristi su alcune questioni, ed alcune erano già state attuate nella prassi56. La nuova forma di obbligazione camerale venne poi perfezionata dalla costituzione Universi agri dominici (1612), nella quale Paolo V raccomandava che nell’esecuzione delle obbligazioni camerali fosse osservato lo stylus hodiernus. Esso si distingueva dalla forma antiqua, ormai superata, per alcune innovazioni, che venivano indicate dal papa: (1) la possibilità di un’unica citazione; (2) l’obbligazione nei confronti degli eredi (3) la mancata costituzione dei procuratori (4) la mancanza della susceptio censurarum57.
È opportuno sottolineare che i due stili, dopo il 1570, non sono mai coesistiti, ma il più recente ha soppiantato l’antico. Nella seconda metà del Seicento De Luca poteva pertanto scrivere che la formula antiqua era “in totalem oblivionem habita”. Secondo De Luca, la formula moderna dell’obbligazione camerale, essendo caratterizzata da una “maiorem clausularum amplitudinem”, aveva risolto i dubbi interpretativi che la più antica aveva lasciato aperti, ed evitava il sorgerne di nuovi58. Soprattutto, essa semplificava la procedura perché aboliva le formalità superflue, che servivano solo ad assecondare strategie dilatorie ed erano pertanto di intralcio ai commerci.
Le moltissime obbligazioni camerali che troviamo nella documentazione notarile relativa all’Accademia di San Luca, e conservata all’Archivio di Stato di Roma, riguardano un periodo successivo al 1570: esse seguono dunque lo stylus modernus. Sono riconoscibili in tal senso perché gli atti, per la maggior parte, fanno riferimento ad obbligazioni in ampliori forma Camerae, espressione che indica l’applicazione dello stile moderno, ed è richiamata la responsabilità degli eredi. Per maggiore chiarezza cercheremo allora di descrivere la procedura esecutiva connessa all’obbligazione in forma Camerae evidenziando le caratteristiche proprie dello stylus modernus, non senza fare qualche accenno a quale fosse la procedura prima della riforma.
a. Lo strumento: repetitio, recognitio ed extensio formulae prima e dopo la riforma
L’obbligazione in forma Camerae poteva essere contenuta sia in uno strumento pubblico che in una scrittura privata. La forma pubblica non era necessaria per la validità del contratto ma consentiva una più celere esecuzione.
Naturalmente, il massimo grado di certezza, e dunque di affidabilità, era dato dallo strumento pubblico rogato da un notaio attuario59, ed era anche consuetudine degli uffici notarili dell’Auditor Camerae apporre le clausole di obbligazione camerale nella generalità dei contratti che comportavano un’obbligazione pecuniaria, al punto che — anche quando non espressamente indicata — nello Stato pontificio la formula camerale si presumeva apposta. Con poche eccezioni: come nel comune di Bologna, dove non c’era l’uso di obbligarsi in forma Camerae.
Inoltre, se il contratto era stato rogato da un notaio attuario, la clausola, oltre che apposta, si presumeva correttamente stilata. Dunque, non era necessaria alcuna ricognizione dell’atto, e si poteva immediatamente citare il debitore.
Secondo lo stylus antiquus, però, se lo strumento fosse stato rogato da un notaio diverso, doveva poi essere prodotto davanti ad un attuario, che poteva limitarsi ad operarne una repetitio prima di procedere alla citazione oppure, se il primo notaio avesse in qualche modo abbreviato le clausole, come spesso accadeva, o la scrittura fosse stata privata, l’attuario avrebbe dovuto procedere alla cd. extensio della formula, per rendere lo strumento del tutto conforme alla forma di obbligazione camerale in uso. A tal fine il notaio era tenuto a compierne una recognitio, anche attraverso giuramento di testimoni.
L’extensio consisteva nell’inserimento di tutte le clausole generali considerate essenziali nel contratto in forma Camerae (ad eccezione del giuramento), e dalla giurisprudenza rotale era considerata necessaria a pena di nullità60. Ad essa seguiva il decretum de extendendo dell’A.C.
L’estensione era molto discussa, fonte di dispute sulle modalità di realizzarla, e occasione di espedienti dilatori per il debitore. De Luca la considerava un esempio di quelle “inutili formalità di cui l’antichità era tanto amica”61.
Infatti, lo stylus modernus, che prevedeva una procedura più spedita, l’aveva in parte accantonata: chi si fosse obbligato in ampliori forma Camerae (cioè secondo lo stylus moderno) attraverso uno strumento pubblico — anche non rogato dai notai dell’A.C. — non doveva più essere citato per l’extensio della formula. Era sufficiente che avesse acconsentito al mandato esecutivo unica vel sine citatione, e in questo caso veniva citato una sola volta, direttamente ad solvendum. La possibilità di evitare l’estensione non riguardava i contratti stipulati con scrittura privata, ed era esclusa nel caso di modificazione dei soggetti dell’obbligazione (personae mutatae).
b. Le citazioni
Verificato lo strumento, si citava il debitore.
Normalmente, la citazione di un debitore domiciliato in Urbe avveniva personaliter oppure per affixionem cedulae sulla porta di casa: nel primo caso la citazione poteva essere per il giorno stesso (hodie per totam, cioè entro l’ora dell’udienza), nel secondo per il giorno dopo (ad primam).
Se però il debitore non aveva il domicilio in Urbe e risultava absens, allora il creditore, dopo una sommaria ricerca, in città giurava sull’assenza del debitore, e il giuramento costituiva di per sé prova dell’assenza. Era tuttavia necessario, per poter procedere in absentia, che il credito fosse liquido, dunque determinato nel suo ammontare, altrimenti prima del giuramento avrebbe dovuto esser reso tale attraverso testimoni.
In questo caso la citazione poteva avvenire per audientiam contradictarum, se fosse stato periodo di udienze, oppure per affixionem sulla porta della curia dell’Uditore o in altri luoghi soliti, se fosse stato periodo di vacatio. L’audientia contradictarum era una modalità di citazione utilizzata nei riguardi di “omnes contumaces ab Urbe absentes”62. Le citazioni venivano lette dal notarius contradictarum in un luogo pubblico nei dies iuridici; nel tempus vacationum le contradictae venivano invece affisse.
Nell’ambito dello stylus antiquus le citazioni del debitore erano molteplici. Nel caso in cui l’obbligazione fosse stata inserita in un atto che richiedeva estensione della formula, si veniva citati ad dicendum contra iura. Passati alla fase esecutiva vera e propria, la citazione del debitore avveniva una prima volta nei modi che abbiamo appena descritto, una seconda volta per la scomunica e il rilascio delle litterae declaratoriae, una terza volta per l’aggravazione, reaggravazione e invocazione del braccio secolare, una quarta per l’avvio dell’esecuzione forzata.
La procedura era portata avanti a ritmo estremamente serrato, tanto che — se il debitore era domiciliato in Urbe e praesens, e senza la concessione di dilazioni — in una quindicina di giorni al massimo si poteva arrivare alla fase di espropriazione forzata. Le attività che si svolgevano nel corso di questo breve periodo erano numerose, persino incalzanti per l’obbligato. Si può dire che, nel complesso, la presenza del debitore fosse richiesta per alcune precise finalità: adempiere, confessare o veder confessato il debito, essere scomunicato.
Chi invece si fosse obbligato secondo lo stylus modernus acconsentendo al mandato esecutivo unica vel sine citatione, veniva citato una sola volta, direttamente ad solvendum. Una volta comparso in giudizio l’obbligato riceveva l’intimazione ad adempiere e, in assenza di eccezioni rilevanti, veniva contestualmente rilasciato il mandato esecutivo. Se invece avesse dato il consenso ad una bina citatio, allora il mandato sarebbe stato rilasciato nella seconda ed ultima udienza.
c. Confessione del debito e scomunica
Lo stylus antiquus si caratterizzava per la confessione del debito e la scomunica. Trascorso il termine previsto dalla prima citazione, la confessione del debito veniva compiuta, su istanza del creditore, da uno dei procuratori indicati nello strumento, per la somma contenuta nello strumento stesso.
Avuta la confessione del debito, su istanza del creditore il giudice dichiarava che l’obbligato sarebbe incorso nella sentenza di scomunica se non avesse adempiuto entro tre giorni (nisi infra tres dies), fatta salva la possibilità di opporre – in quei tre giorni, e non oltre – rilevanti eccezioni, tra le poche concesse all’obbligato in forma Camerae.
Decorsi i tres dies senza l’adempimento – benché il termine potesse essere differito fino a trenta giorni – il giudice, alla presenza del creditore o del suo procuratore, dichiarava scomunicato il debitore se entro la giornata non avesse adempiuto. Trascorsa inutilmente la giornata, venivano emanate le cd. litterae declaratoriae. Le declaratorie non servivano per la comminazione della scomunica (già pronunciata con la formula nisi infra tres dies satisfecerit), ma per la sua pubblicazione e per le conseguenze sociali che essa comportava: come si sa, infatti, lo scomunicato andava evitato dai fedeli.
È il caso di sottolineare che i tres dies indicati dal giudice non erano che un simulacro della trina monitio richiesta dal diritto canonico. In questo modo le due fondamenta giuridiche della scomunica — la contumacia e le monitiones — venivano formalmente preservate.
Le lettere declaratorie venivano materialmente redatte da un notaio attuario, consegnate all’attore ed affisse da un cursore del tribunale a Campo de’ Fiori, in modo tale che si sapesse pubblicamente che il debitore era scomunicato. Passati dieci giorni senza che l’adempimento fosse stato effettuato, il debitore veniva citato un’altra volta, per aggravatio, reaggravatio e auxilium brachii saecularis. In sostanza, all’udienza il giudice aggravava le censure invocando l’ausilio del braccio secolare, e rilasciava le “lettere aggravatorie”, che contenevano sia l’ordine di conseguire dal patrimonio del debitore beni per il valore del debito, al fine di venderli all’asta, sia di incarcerare il debitore finché non avesse soddisfatto il debito integralmente.
In forza di queste lettere, si affiggevano in giro per la città cartelloni scritti in lettere maiuscole, alla sommità dei quali – in vilipendio dei debitori – erano disegnate con vari colori immagini “deformes atque indecorae.”63
Lo stylus hodiernus non richiedeva più la costituzione dei procuratori ad confitendum debitum. Era una trasformazione significativa della procedura, perché alla confessio in iure del debito era stata riconosciuta sino a quel momento un’importanza decisiva ai fini dell’efficacia dell’obbligazione camerale, della quale costituiva un elemento antichissimo. La costituzione Inter illa aveva invece stabilito che il procuratore potesse essere costituito per la confessione del debito solo se fosse stato nominato dal convenuto anche per la propria difesa, e non avesse accettato l’onere della difesa. La disposizione era stata confermata dalla bolla Universi agri dominici nel 1612. Nello stesso anno, Sigismondo Scaccia attestava che la costituzione del procuratore era ormai scomparsa dalla pratica giudiziaria e, di fatto, a sparire fu anche la confessione giudiziale del debito. Lo stesso Scaccia sosteneva che se, dopo la riforma, se ne fosse ancora trovata traccia negli strumenti dotati di obbligazione camerale, essa sarebbe stata verosimilmente fittizia64.
d. Esecuzione reale e personale
Dopo la scomunica (secondo lo stylus antiquus), oppure prima o in sua assenza (secondo lo stylus modernus), era possibile procedere contro il debitore in via reale e/o personale, congiuntamente o disgiuntamente secondo la richiesta del creditore. Il debitore aveva facoltà di evitare o far cessare in qualsiasi momento la procedura esecutiva consegnando la somma dovuta, in contanti, agli esecutori.
L’esecuzione personale portava al carcere e, teoricamente, poteva colpire qualsiasi obbligato. Di fatto affliggeva le categorie sociali più indifese, perché i giudici, per prassi, risparmiavano l’arresto a prelati, baroni, uomini illustri e “donne oneste”65. La detenzione cessava solo soluto debito, o dopo il deposito di idonea cauzione.
L’esecuzione reale sui beni mobili avveniva attraverso l’apprensione degli stessi dalla casa del debitore (o da altro luogo) ed il loro deposito: quest’ultimo, dopo l’istituzione da parte di Urbano VIII nel 1625, avveniva presso la Depositaria urbana dei pubblici pegni.
Nel caso di immobili, si procedeva al pignoramento attraverso l’accessio ad domum, ed eventualmente ad vineam, dell’obbligato, alla presenza di testimoni, dell’esecutore e del notaio attuario della causa, che ne redigeva verbale.
Compiuto il pignoramento, mobiliare o immobiliare, su istanza del creditore l’esecutando veniva citato per ricevere l’intimazione a consegnare il denaro, a soddisfacimento parziale o totale del credito, con decreto nisi ad primam diem, cioè entro un giorno. Decorso inutilmente il breve termine, veniva emesso nei confronti degli esecutori il mandato di consegna dei pegni ai cursori, per la vendita dei beni all’incanto.
Ricevuti i beni, i cursori li descrivevano in una cedola, e poi provvedevano all’asta.
Una volta che i beni erano stati venduti al miglior offerente, se il ricavato non era sufficiente a soddisfare il creditore, era consuetudine della Curia che si procedesse ad ulteriore esecuzione — sia reale che personale — in forza del primo mandato, fino alla soddisfazione integrale del credito.
e. Le eccezioni e la vulnerazione
La formula dell’obbligazione camerale prevedeva la rinuncia alla presentazione di eccezioni ed appelli.
Tuttavia, era generalmente ammesso che contro l’esecuzione delle obbligazioni camerali si potesse opporre una terna di eccezioni: falsitas, solutio e quietatio. Non erano però tassative, ed altre erano ammesse sia in base alla loro rilevanza sia, soprattutto, a condizione che non ostacolassero o ritardassero l’esecuzione.
Non potevano infatti essere evitate quelle eccezioni che si fondavano sulla incompetentia iudicis, sulla inhabilitas dell’attore (perché ad esempio minore, bandito o scomunicato) o sul suo inadempimento (res non tradita, pretium non solutum), e sulla nullità dello strumento.
In linea generale, secondo dottrina e giurisprudenza, alcune eccezioni potevano essere semplicemente rigettate, altre impedivano la prosecuzione del processo perché la loro ammissibilità era immediatamente evidente dalla lettura dello strumento, o da fatto notorio, o dalla natura della cosa (ad es. res non tradita, res non libere tradita, ecc.). Quelle eccezioni che non erano immediatamente accertabili ma richiedevano un’ulteriore indagine, ad esempio per testimoni, potevano essere rigettate per non ritardare l’esecuzione.
Questo criterio generale lasciava comunque spazio ad una casistica di eccezioni ammissibili.
L’esecuzione doveva però essere sempre interrotta in caso di vulneratio, ovvero quando fosse intervenuta una sentenza, o un lodo arbitrale, di assoluzione del debitore. L’obbligazione vulnerata perdeva l’executio parata, e diventava sempre appellabile. L’appello però, costituiva l’unico rimedio per il creditore, che doveva poi aspettare le tre sentenze conformi.
Tanto i trattatisti quanto la giurisprudenza guardavano con una certa ostilità all’ipotesi che un qualche evento – persino un fatto così importante come l’assoluzione del debitore – potesse ostacolare o interrompere la procedura esecutiva. De Luca non faceva mistero del considerare la sentenza assolutoria un “grave pregiudizio” per il creditore, ed avvertiva i giudici “a non essere lubrici e facili alle sentenze assolutorie”.66
f. L’obbligazione nei confronti degli eredi
Ai tempi dello stylus antiquus era dibattuto se l’obbligazione camerale si trasferisse agli eredi67.
Era incontestato che l’obbligazione si trasferisse integralmente agli eredi del creditore. Rispetto agli eredi del debitore, però c’erano molti dubbi. Innanzitutto, perché l’obbligazione camerale consisteva in un impegno giurato, e gli eredi sarebbero incorsi in uno spergiuro per un giuramento che non avevano personalmente prestato, o persino in una scomunica. Ma la questione che sembrava centrale ed ostativa della successione nell’obbligazione era quella del mandato ai procuratori.
La formula camerale, secondo lo stylus antiquus, includeva infatti la costituzione di procuratori, con mandato a confessare il debito in nome e per conto del debitore per la somma indicata nel contratto, e si riteneva che tale mandato dovesse considerarsi revocato con la morte del debitore. Tuttavia, alla metà del Cinquecento la piena Segnatura di Giustizia era giunta alla conclusione, poi recepita dalla prassi, di considerare esecutabili i beni del debitore defunto, poiché il mandato, essendo inserito nel contratto camerale ad alterius commodum, non poteva essere revocato tacitamente alla morte del debitore68.
Negli anni seguenti, dopo la riforma dell’obbligazione camerale del 1570, la soluzione indicata dalla Segnatura di Giustizia fu rafforzata dal venir meno della costituzione dei procuratori. Dunque la trasmissibilità agli eredi, sulla quale la dottrina era stata esitante fino al 1555, si avviò a diventare una caratteristica tipica dello stylus modernus. Come tale venne indicata nella costituzione Universi agri dominici (1612).