Intorno al 1970 due storici dell’arte, muovendosi su binari paralleli, gettarono nuova luce sui primi anni dell’Accademia di San Luca scoprendo che, tra le migliaia di volumi di contratti autenticati (chiamati protocolli) conservati presso l’Archivio di Stato, vi erano i verbali degli incontri dei sodalizi di artisti, tra cui anche quelli dell’accademia14. Fino a una ventina di anni fa non è stato intrapreso alcun lavoro sistematico di ricerca che portasse alla luce tutte queste fonti, che sono state raccolte e rese accessibili soltanto con lo sviluppo del sito “The History of the Accademia di San Luca, c. 1590–1635: Documents from the Archivio di Stato di Roma”15. In un saggio del 1972 sul ruolo di Simon Vouet come guida dell’accademia, Noelle de La Blanchardière si chiedeva come mai i verbali delle riunioni fossero contenuti nei protocolli notarili e rifletteva su quale potesse essere il rapporto tra i notai e l’accademia16. Gli storici hanno rivolto la loro attenzione anche ai servizi prestati dai notai per le organizzazioni artigiane, scoprendo che le tracce notarili potrebbero essere l’unica testimonianza lasciata da parti sostanziali delle classi lavoratrici nella Roma della prima età moderna17. Siamo ora in una posizione migliore per rispondere alle domande di La Blanchardière e per far luce sulla natura di questi documenti indispensabili per ricostruire i primi anni dell’accademia.
Nell’Europa dell’alto Medioevo era consuetudine riunirsi per deliberare su questioni che riguardavano la comunità. Nelle istituzioni ecclesiastiche e nei nascenti comuni dell’Italia medievale si affermò la pratica di chiedere a un notaio di registrare i nomi dei presenti ad un’adunanza e di compilare un resoconto sintetico delle decisioni prese18. Nella sua qualità professionale di portatore di pubblica fides, il notaio rappresentava il volto pubblico dell’autorità e conferiva agli atti che sigillava o firmava un valore probatorio specifico e quantificabile. Per quanto i giuristi medievali potessero cavillare sulla quantità di prove addotte dal notaio, era generalmente accettato che i suoi scritti avessero il valore equivalente a quello di due o tre testimoni, che era più o meno lo standard più elevato che chiunque potesse ottenere senza altro aiuto19. Né i giuristi né i manuali notarili dicono nulla sui verbali delle riunioni20, anche se i manuali forniscono modelli per molti tipi di instrumenta (come venivano chiamati i contratti) di cui clienti come l’Accademia di San Luca avrebbero potuto necessitare, quali ricevute, obbligazioni o atti di presa di possesso di proprietà. Pur non fornendo alcuna indicazione, quindi, sulla forma che avrebbero dovuto assumere i verbali delle riunioni, i manuali ne recepivano la pratica fornendo esempi di procure con cui gli organi societari stabilivano le deleghe21. In testi di questo genere era di fondamentale importanza che fossero nominati tutti coloro per i quali l’agente era autorizzato a operare, e alla base di questa consuetudine c’era indubbiamente il principio giuridico secondo cui il consenso è personale e specifico. I notai registravano le decisioni che i presenti si impegnavano a mettere in pratica. Poiché queste risoluzioni avevano spesso ripercussioni finanziarie, era essenziale formalizzarne gli obblighi e, dato che spesso era opportuno vincolare il gruppo per imporre una politica comune, si comprende perché fosse prassi comune avere un notaio presente alle riunioni22. Per la stessa ragione, era ovviamente improbabile che incontri come conferenze e lezioni che non avevano alcuna implicazione organizzativa o fini finanziari fossero descritti nei protocolli del notaio.
Qualunque sia la sua origine, la consuetudine di servirsi dei notai per documentare le riunioni deve essersi ampiamente diffusa tra le città italiane nel tardo Medioevo. Per quanto riguarda Roma, l’assenza di fonti notarili precedenti la metà del 1300 e le vaste perdite di quelle successive rende confuso il quadro, ma tale pratica è testimoniata dal 1421 negli statuti delle corporazioni della lana23. Presumibilmente quindi, i pittori che nel 1478 formularono gli statuti per la loro confraternita conoscevano la pratica ed è plausibile che i loro discendenti cinquecenteschi pagassero i notai non solo per gli atti, ma anche per il loro lavoro in qualità di scrivani della corporazione24. Per gli studiosi il problema nasce non tanto dal fatto che non si capiscano le motivazioni della partecipazione dei notai alle riunioni di una collettività, quanto dalla difficoltà, perlomeno a Roma, nel reperire questo genere di documenti prima degli anni ottanta del Cinquecento.