Per ironia della sorte, è a Sisto V, il papa che nel 1588 aveva costretto l’associazione dei pittori ad abbandonare la sede dell’Esquilino, che dobbiamo la sopravvivenza sistematica della loro attività notarile e quindi la nuova visione delle origini dell’accademia. Nel 1586 il papa intervenne radicalmente sul funzionamento della professione notarile che a Roma, diversamente dalla maggior parte delle città italiane, era duplice. I notai civici, o capitolini, provvedevano alle esigenze dei cittadini e preparavano atti giudiziari per il tribunale municipale situato nel Palazzo del Senatore. I notai curiali, molti dei quali stranieri, lavoravano invece negli uffici e nei tribunali pontifici che si occupavano delle esigenze degli ecclesiastici. Nella pratica, questa divisione non era così netta per i clienti e vi furono laici che si servirono di notai curiali e chierici che erano clienti abituali di quelli capitolini, ma i due gruppi di notai erano effettivamente distinti perché il tribunale laico e quello clericale seguivano procedure legali diverse25. Sisto V limitò a trenta il numero precedentemente illimitato dei notai capitolini e per la prima volta mise in vendita i loro uffici, avviando così il processo di trasformazione della loro professione da attività libera e organizzata in modo molto vago a ufficio facente parte di una corporazione chiusa di funzionari venali26. Quindici degli uffici notarili di nuova creazione fornivano servizi giudiziari a uno dei due giudici civili (collaterali) del tribunale del Senatore, quindici all’altro. Nel secolo precedente i papi avevano reso venali tutti i notai curiali, così ora la possibilità di ottenere la proprietà degli uffici notarili divenne la norma. Tuttavia, in venticinque anni, i papi fecero un’unica concessione ai notai capitolini: a differenza dei notai curiali nel 1612 Paolo V assicurò loro il diritto di lasciare in eredità o vendere il proprio ufficio come una qualsiasi altra forma di proprietà27. Mentre gli effettivi titolari dell’ufficio dovevano essere notai riconosciuti da funzionari civici e ammessi nel nuovo collegio del tribunale capitolino (notarii curiae capitolii), chiunque poteva acquistare l’ufficio, o per intero o in parte, e disporne liberamente.
Tra il 1583 e il 1634, le varie associazioni di pittori, tra cui corporazione, confraternita e accademia, nonché la confraternita degli scalpellini, in cui si trovavano intrappolati gli scultori, si avvalsero dei notai capitolini per provvedere ai loro obblighi formali e registrare pagamenti, quietanze, trasferimenti di proprietà, inventari e, soprattutto, contenziosi. In questi anni lavorarono per l’accademia sette notai: Ottaviano, Marco Aurelio e Alessandro Saravezzi, Giovanni Antonio Moschenio, Erasto Spannocchia, Lorenzo Tigrino e Tommaso Salvatore. Siamo a conoscenza dei loro nomi e possiamo scoprire i loro clienti grazie all’imposizione della venalità ai notai capitolini voluta da Sisto V e all’insistenza di Paolo V sulle nuove pratiche archivistiche dei documenti notarili. Il periodo che va dal 1586 al 1612 apportò cambiamenti rivoluzionari nelle procedure dei notai romani e non è un caso che l’Accademia di San Luca emerga dall’oscurità proprio in questo arco di tempo.
Il suo signum, il logo unico che i notai romani usavano per bollare la prima pagina dei loro protocolli e le copie pubbliche dei loro atti, identificava il romano Ottaviano Saravezzi come notaio capitolino ancor prima dell’intervento di Sisto V del 158628. Saravezzi aveva lavorato per falegnami e muratori nei primi anni ottanta del Cinquecento ed era addirittura entrato nella confraternita dei falegnami nel 1584, anno in cui emise anche una ricevuta per un acquisto di legname da parte della corporazione dei pittori (universitas)29. Per i successivi dieci anni, e poi ancora dal 1600 al 1607, Saravezzi continuò a produrre atti sia per la corporazione sia per la confraternita dei pittori e, ovviamente, verbalizzò la riunione del 7 marzo 1593, in cui fu costituita la loro accademia. Mentre nel 1586 decine di notai attivi nell’ambito del tribunale capitolino persero il loro status professionale, la nuova politica del papa consentì a Saravezzi di acquistare per 500 scudi lo studio notarile in cui aveva sempre esercitato, trasformando in un certo qual modo la sua attività in una forma di proprietà30. La proprietà non consisteva nello spazio fisico nel rione Pigna dove lo trovavano i suoi clienti, ma piuttosto nei volumi dei protocolli contenenti i loro contratti e testamenti e negli atti delle loro controversie. Gli studiosi a volte trascurano i profitti che i notai ricavavano dallo svolgimento delle cause perché hanno lasciato tracce molto scarse rispetto agli atti commerciali presenti nei protocolli, ma Sisto V si aspettava che proprio le cause sarebbero state il richiamo che li avrebbe indotti ad acquistare i loro uffici. Ottaviano Saravezzi era ora diventato uno dei quindici notai capitolini che producevano e depositavano atti di controversie presso il secondo collaterale, uno dei quattro giudici del tribunale del Senatore. Ogni mese lui e gli altri ventinove professionisti del collegio dei notai del tribunale capitolino mettevano in comune una percentuale degli introiti derivanti dalla loro attività giudiziaria31. Pur non rientrando nella fascia più alta dei compensi, i guadagni di Saravezzi dimostrano che i clienti ricorrevano a lui anche per gli atti giudiziari oltre che per i contratti32. Come spiega Antonia Fiori nell’articolo “L’obbligazione camerale nei documenti dell’Accademia di San Luca” i notai erano il cuore pulsante del sistema giudiziario. Tutte le azioni legali iniziavano con la comparizione davanti ad un notaio ed essi operavano con notevole autonomia, dal momento che i magistrati si affidavano a loro per compilare citazioni e ingiunzioni cui i giudici avevano già apposto le loro firme.
La venalità ebbe un impatto immediato, oltre che a lungo termine, su Saravezzi. Nel 1584 gli atti da lui prodotti per i suoi clienti nel corso di un anno riempivano un volume rilegato; sette anni dopo ne occupavano tre. La contrazione del numero dei notai cittadini comportò maggiori affari per Saravezzi. Inoltre, poiché gli atti che rogava per i suoi clienti costituivano ormai un investimento consistente, aveva un forte incentivo a conservarli con cura. Gli inventari dei protocolli in possesso dei trenta notai capitolini documentano un cambiamento epocale negli anni ottanta del Cinquecento, con serie pressoché complete per la maggior parte degli uffici per i successivi tre secoli. Possiamo farci un’idea dello stato in cui erano conservati gli atti dei clienti prima della venalità guardando i volumi sparsi risalenti a prima degli anni ottanta, che sopravvivono in alcuni dei trenta uffici e che spesso consistono in un miscuglio di atti disordinati rogati da notai diversi33. Ancora più avvilente è la raccolta di protocolli denominata Notai Capitolini, custodita nell’Archivio di Stato di Roma, che rappresentò in effetti un tentativo, intrapreso a partire dagli anni sessanta del secolo, di arginare la perdita di volumi che si verificava ogniqualvolta un notaio moriva e la famiglia ereditava il suo archivio segreto di taccuini dai quali aveva tratto il sostentamento. Questa serie, che contiene la maggior parte di ciò che è sopravvissuto in termini di protocolli prodotti a Roma prima del 1586, è in gran parte costituita da ciò che le autorità riuscirono a sottrarre agli eredi dopo la morte di un notaio. L’eccessiva libertà della professione notarile a Roma prima di Sisto V spiega perché sia stato così difficile tracciare l’attività delle associazioni di artisti nei decenni precedenti.
Un secondo effetto della venalità, che si manifestò gradualmente a partire dagli anni novanta, fu l’aumento del numero di impiegati del notaio. I documenti che troviamo nei protocolli raramente sono di mano di Ottaviano Saravezzi34. Un titolare poteva impiegare uno o due giovani, che verso il 1620 potevano arrivare a quattro o cinque, che si occupassero di gran parte del lavoro di scrittura dell’ufficio, alcuni autorizzati ad agire come notai e altri come semplici scrivani35. L’ufficio aveva una struttura gerarchica, con a capo il padrone36. I sostituti erano impiegati che avevano la qualifica ufficiale di notaio e piena autorità per certificare contratti (atti o strumenti finanziari) e intraprendere attività giudiziarie, come l’assunzione di testimonianze o la redazione di citazioni legali. I giovani erano gli impiegati, che trascrivevano le bozze delle transazioni trasformandole in testi compiuti da conservare nei protocolli; lavoravano da troppo poco tempo per avere i requisiti per ottenere lo status di sostituto oppure per qualche motivo non avevano cercato di ottenerlo. I giovani preparavano anche gli indici da inserire nei protocolli prima che uscissero per la legatura, seguendo la prassi dell’ufficio o la propria inclinazione nel determinare il nome da dare ai clienti. Fu lo stesso Saravezzi a partecipare all’importante incontro del 7 marzo 1593, ma già dal 1620 circa era molto più comune che fossero i sostituti a documentare i raduni dell’accademia. Sebbene di solito ci fosse un rapido avvicendamento del personale, alcuni dipendenti rimanevano in un determinato ufficio per anni, anche quando cambiava il titolare. Joseph Palmuctius, ad esempio, che lavorò nell’ufficio 15 dal 1621 al 1627, coprì il mandato di tre notai capitolini, Spannocchia, Tigrino e Salvatore. In quel periodo movimentato, il suo nome compare frequentemente come cancelliere delle adunanze dell’accademia37.
L’aumento dei dipendenti rappresentava l’incremento dell’attività dei notai sotto l’impatto della venalità, ma rifletteva anche l’intensificarsi della regolamentazione governativa in relazione agli atti notarili. Dalla metà del Quattrocento in poi, i notai capitolini dovevano rilegare annualmente i loro atti e apporre il proprio nome sulla copertina, ma tra il 1580 e il 1612 le regole per la scrittura notarile si fecero molto più rigide. Nuove leggi municipali e pontificie esigevano che le trascrizioni complete fossero effettuate entro un mese (1580)38, che i volumi notarili fossero rilegati ogni tre mesi (1612), che all’inizio di ogni volume fosse inserito un indice alfabetico con i nomi dei clienti e il numero di foglio di ciascun atto (1612) e che i sostituti apponessero i loro nomi in calce agli atti che avevano rogato (1612)39. La maggior parte di queste misure aveva come obiettivo primario la protezione dell’integrità dei documenti da possibili manomissioni, ma ebbero l’effetto secondario di rendere più facile il tenerne traccia.