Negli anni tra il 1590 e il 1630 Roma era una città popolata da persone—per la maggior parte uomini—in continuo movimento. Per la prima volta dalla tarda antichità, nel 1600 il numero degli abitanti superò la soglia delle 100.000 unità, ma il continuo andirivieni di immigrati e visitatori era tale che un censimento, per natura statico, difficilmente riesce a tradurre una realtà così dinamica1. Sebbene sia soltanto a partire da questi decenni che possiamo iniziare a registrare l’incremento della popolazione, i dati a noi disponibili indicano come la crescita demografica, già iniziata intorno alla metà del Cinquecento, rallentò solo durante il pontificato Barberini (1623-1644). Tra i migranti gli uomini erano in numero predominante per la particolare natura delle opportunità economiche offerte dalla Roma papale; le possibilità d’impiego riguardavano principalmente i settori dei servizi, dell’edilizia e della burocrazia, che richiamavano una forza lavoro in gran parte maschile. Come è noto, molti di questi individui arrivarono nella città eterna in cerca di un mestiere nei settori dell’arte, e furono centinaia, se non migliaia, a trovarlo2. Le ricchezze pubbliche della Chiesa e del papato, cui si associarono le fortune private di cardinali, banchieri e aristocratici, attrassero talenti, abilità e manovalanza da posti lontani come le Fiandre e vicini come le colline della Sabina. Nei primi anni novanta del Cinquecento alla moltitudine di coloro che prendevano la via per Roma si unì, per la seconda volta, il pittore e teorico marchigiano Federico Zuccari, il quale portava con sé l’idea, sperimentata di recente a Firenze, di creare un’associazione di uomini scelti dediti al disegno o esperti di questa disciplina, un’accademia in cui sarebbe fiorita la cultura artistica. Lungo la strada aveva forse a malapena notato che tra i suoi compagni di viaggio ve ne erano alcuni con la penna e il calamaio, strumenti tipici della professione notarile, persone spesso provenienti dalle arroccate cittadine dell’Italia centrale che speravano di trovare lavoro a Roma3. Non sappiamo se Zuccari abbia prestato loro maggiore attenzione quando a Roma discusse il suo grande progetto con artisti che fin dagli anni settanta del Cinquecento avevano perseguito un’idea simile, ma sappiamo che i notai gli prestarono attenzione, partecipando sia alla riunione del 7 marzo 1593 che portò alla fondazione di un’accademia, sia agli incontri precedenti e successivi4. In effetti, gli studiosi si stanno rendendo conto che gran parte di quel che sappiamo sui primi decenni in cui si tentò l’esperimento di istituire a Roma un’accademia per artisti lo dobbiamo proprio all’attento lavoro dei notai.
I notai rappresentano un utile punto di accesso alla storia di qualsiasi istituzione, in particolare di quelle romane in un periodo di rapidi cambiamenti come questo, perché ci aiutano a comprendere come la presunta stabilità e immutabilità di determinate strutture sia di fatto fittizia. Nella realtà, le istituzioni raramente agiscono con la chiarezza e la prevedibilità descritte dagli storici, e i documenti che utilizziamo per tracciarne il ritratto raramente sono così trasparenti come sembrano. L’effervescenza, se non la turbolenza organizzativa della Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo era tale che sarebbe fuorviante credere che le sue istituzioni potessero avere una fisionomia stabile e dai netti confini. I notai romani, avendo documentato le riunioni di gruppi molto diversi per forma, dimensioni e aspirazioni, ci hanno lasciato un quadro singolarmente autentico della fragilità, del caos e della mutevolezza delle associazioni createsi in quei decenni.
Perché all’inizio del Seicento le forme di vita collettiva cittadina erano in continua mutazione? In parte ciò era dovuto all’immigrazione e all’aumento della popolazione, ma un ruolo significativo lo ebbero anche fattori religiosi e politici. Il movimento di riforma del cattolicesimo, sia prima sia dopo il Concilio di Trento (1545-1563), incentivò la fondazione di nuovi sodalizi dediti ad attività caritatevoli e devozionali, molti dei quali concentrarono le proprie energie sulla città di Roma5. La riforma diede inoltre rinnovato vigore alle confraternite esistenti—come quella dedicata a San Luca, cui appartenevano i pittori e i lavoratori dell’arte—cosa che spesso si tradusse in nuovi progetti e ambizioni e nella modifica delle procedure amministrative necessarie per perseguirli. Questa continua mutazione degli organi corporativi nel Cinquecento ha lasciato il segno nei tanti esempi di revisione o creazione di nuove regole (capitoli, ordini, institutioni) che gli studiosi trovano nelle biblioteche e negli archivi romani6. Chiamati genericamente ma impropriamente statuti—termine che, in senso stretto, dovrebbe essere riservato alle più rare versioni avallate dalle competenti autorità municipali o pontificie—questi documenti testimoniano in tutta la loro varietà il forte coinvolgimento personale dei partecipanti in quelle che, di fatto, erano fra le poche istituzioni della prima età moderna, in cui potevano avere voce in capitolo. Per quanto riguarda le corporazioni dei mestieri, i decenni che vanno dal 1550 al 1650 si segnalano come un periodo di nuove fondazioni, di secessioni e aggregazioni, con una febbrile revisione degli ordinamenti, sia manoscritti sia a stampa.
Lo scindersi e il fondersi delle organizzazioni artigiane deve probabilmente qualcosa ai movimenti spirituali delle confraternite, che spesso ne sono state la matrice, ma può anche essere il riflesso di un’astuta strategia politica. Gli stessi pontefici intervennero, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, per trasformare radicalmente molte istituzioni romane consolidate, dalle congregazioni cardinalizie al tribunale municipale con i suoi notai. L’accentramento del controllo nelle mani dello Stato (cioè del governo pontificio) era forse il loro obiettivo, ma i metodi utilizzati ebbero spesso l’effetto opposto. Quando i papi crearono associazioni privilegiate in modo da poterne sfruttare la collaborazione nelle politiche dello Stato, involontariamente pubblicizzarono i vantaggi della formazione di nuovi gruppi. Gli artigiani e i commercianti di Roma non tardarono a capirlo. La mutevolezza istituzionale fu favorita da un altro paradosso. Nonostante l’autorità ecclesiastica e statale fosse concentrata nelle mani dei pontefici, a Roma il potere politico era distribuito tra i membri dell’élite più diffusamente che in una normale capitale dinastica. I settanta membri del collegio cardinalizio—una delle peculiarità di questo regno ecclesiastico—assumevano una funzione di centri di influenza e di mecenatismo tale da fare invidia ai membri di una corte reale7. Laddove si moltiplicavano i mecenati, le organizzazioni in concorrenza tra loro prosperavano.
Per quanto questo quadro enfatizzi la vitalità degli sforzi volti a creare nuove forme di vita collettiva a Roma, gli stessi agenti e attori devono aver spesso provato frustrazione e delusione, poiché questa fu una lotta che vide fallire molti aspiranti. Lo spettro delle varie organizzazioni corporative spaziava dalle riunioni occasionali di pochi con intenti simili ai tradizionali enti privilegiati che avevano i propri tribunali sul colle Capitolino, ma poche erano soddisfatte del posto che occupavano. Anche in una città dinamica come questa le risorse— denaro, influenza, prestigio, mecenatismo— non erano sufficienti per tutti quanti. Inoltre, l’arbitrarietà del potere poteva frapporre battute d’arresto. Come devono essersi sentiti i membri della confraternita dei pittori quando, dopo decenni di risparmi per ricostruire la loro chiesa sull’Esquilino, nel 1588 papa Sisto V gliela tolse e li relegò nella fatiscente chiesa di Santa Martina vicino al Foro?8 Sappiamo dai protocolli notarili che alcuni gruppi provarono a rendersi indipendenti, come quello degli scultori nel 1608, ma fu loro impedito di farlo9. Le stesse fonti mostrano come molte associazioni professionali fossero evanescenti e impossibilitate a salire abbastanza in alto nella gerarchia istituzionale da riuscire ad acquisire beni e un luogo di ritrovo, tanto meno un riconoscimento formale in statuti ufficiali10. Creare un’istituzione a Roma tra il 1590 e il 1630 comportava un processo scandito da obiettivi ben definiti, ma rischioso di risultati incerti e disomogenei. Un procedimento carico di conflitti, che non progrediva con ordine e con un ritmo regolare e prevedibile. Una volta messo in moto, poteva altrettanto facilmente arrestarsi, momentaneamente o per sempre.
Come emerge dai documenti notarili, le vicende dei primi anni dell’Accademia di San Luca, si conformano nei loro tratti salienti a questo schema generale. I notai davano al loro cliente molteplici nomi, che spesso si sovrapponevano (universitas, collegio, congregatio, societas, accademia), probabilmente perché non era affatto chiaro quale fosse l’effettiva identità del gruppo. I tentativi di scrivere e riscrivere le regole dell’organizzazione ci hanno lasciato quattro o forse cinque serie di cosiddetti statuti in meno di quarant’anni. Nei documenti, mesi di incontri frenetici si alternano ad anni di stallo istituzionale.
Ciò nonostante, i notai mostrano anche come l’Accademia di San Luca si distinguesse per la sua notevole ascesa nel rango istituzionale. Nei suoi primi quattro decenni di vita l’Accademia riuscì a compiere una scalata sociale senza pari, liberandosi dell’umile condizione del lavoro manuale e forgiando un’immagine di signorile competenza. Ancora più significativo il fatto che l’accademia riuscì a staccarsi dalle strutture politiche che immobilizzavano le organizzazioni artigiane e a raggiungere la libertà che avevano quelle impegnate in attività nobili e liberali. Prima del 1570 i pittori erano soggetti, come gli scalpellini e tutti gli altri artigiani, alla giurisdizione della municipalità, cioè del Senato e Popolo Romano, e avevano i Conservatori come loro giudici11. Nel 1577 papa Gregorio XIII, riconoscendo il delicato ruolo teologico che rivestivano in qualità di artefici di immagini sacre, li trasferì sotto la giurisdizione del cardinale vicario12. Nel 1624 cercarono di liberarsi dal tribunale del vicario e di ottenere il privilegio di una relativa autonomia sotto un proprio cardinale protettore13. Una tale libertà esigeva un rapporto di assiduo clientelismo con i detentori del potere e questo fu particolarmente vero dopo il 1627, quando divenne protettore dell’accademia il cardinale Francesco Barberini, nipote del papa; niente di meno che l’apice del prestigio nel contesto romano. Nella storia delle istituzioni cittadine, dunque, i primi anni dell’Accademia di San Luca costituiscono un capitolo importante.
Immagine in alto: Pieter Brueghel il Giovane, L’avvocato del villagio (dettaglio), 1621, Museum voor Schone Kunsten Gent